Franco Pedrina

Renato Olivieri

C’è un quadro di Franco Pedrina, di venticinque anni fa, che non ho più dimenticato: foglie, petali, rami, radici in un viluppo aereo. L’avevo acquistato a Milano alla Galleria Bergamini, per appenderlo  una parete del mio studio. Per anni, di notte, l’ho guardato alla luce delle lampade, mentre scrivevo romanzi.
Devo aggiungere che, in quel quadro, tra foglie e rami, in alto a destra - se guardavo attentamente - si profilava, apparendoti quasi all’improvviso, un volto di giovane donna, la bocca rosata, gli occhi di porcellana. Era una sorta di omaggio amoroso alla ragazza che, più tardi, sarebbe diventata la sposa dell’artista e che, a mio parere, come modella, sarebbe piaciuta anche a Paul Gauguin. Anni dopo, quella Primavera, è finita nella casa di mia figlia, continuando tuttavia ad avere per me significati reconditi, come quel volto dissimulato.
Il fascino di un quadro, di quel quadro, è il medesimo che ha accompagnato in seguito la scoperta di tutta l’opera di Pedrina, in cui domina un continuo contrasto che però diventa alla fine misteriosamente armonioso. Insomma un conflitto tra aggressività e elusione. Quante volte ho sentito Pedrina dire: Questo è un quadro cattivo. Cattivo cioè aggressivo, perfido, indocile. Ma come può essere “cattiva” l’opera di un artista così morbido e tenero e carnale?
La pittura lo sappiamo è un mistero.
Metti insieme colori, con abilità, con accortezza, e tutto diventa una specie di esercizio, sia pure squisito. Poi invece esistono pittori che guardano la natura e se ne appropriano. Si emozionano osservando un albero, una siepe. Quando dipingono quell’albero  quella siepe, il quadro si illumina, respira, diventa vivo, autonomo: proprio come quella lontana Primavera di Pedrina. E dopo, diventano vivi e autonomi tutti i ceppi, tutte le angurie, i nudi di donna, i mulini ad acqua, i girasoli, i gabbiani, le betulle, il mondo agreste e marino, con i sapori, gli odori, le dolcezze, gli abbandoni.
Dino Buzzati aveva visto giusto quando, più di vent’anni fa, si era incontrato con lui, con Pedrina, e aveva scritto sul «Corriere della Sera»: un incontro che rallegra.
Certo, rallegra sempre conoscere finalmente un artista autentico.

(Presentazione della mostra, Galleria Ducale, Vigevano 1990)
(Presentazione della mostra, Galleria Due Pini, Roma 1991)

 

Sedotto dalle magnolie
(Franco Pedrina è un personaggio bizzarro: schivo e visionario, colto e spontaneo, misterioso e ironico, sa scrivere con efficacia e si interessa di letteratura e filosofia. Lavora in due studi spogli come celle di convento, e dichiara di cercare intermediari fra sé e Dio. Dipingere fiori, gabbiani, radici è la sua straordinaria follia)
Franco Pedrina, che è nato a Padova nel 1934, appartiene a una generazione di artisti che una certa critica, più attenta alle mode stagionali che ai valori autentici, tende a fare cadere nell’oblio per dedicarsi, imprudentemente, a fenomeni effimeri e del tutto transitori. Va dato atto a Pierpaolo  Ruggerini di averlo presentato, più di vent’anni fa, a Giulio Bergamini che, nel 1968 organizzò la sua prima mostra a Milano,e a Liana Bortolon, studiosa d’arte contemporanea, di averlo segnalato, nel 1975, su Bolaffi, tra i pittori dell’anno.
Ma che cosa rende l’opera di Pedrina tanto seducente, al punto da non dimenticarla più e, alla fine, di considerare lui così schivo e timido appartato e visionario, una delle voci più singolari della pittura dei nostri giorni? Sono, forse, le luci tra le foglie, i verdi acidi, gli azzurri tenui, a rendere la sua pittura così evocativa e struggente? Oppure sono forse i gabbiani, le angurie, i girasoli, i ceppi, le vecchie vigne, cioè i suoi temi prediletti, a lusingare così la nostra immaginazione?
Non lo sappiamo di preciso. In arte nulla è sicuro, definitivo. Tuttavia ci rendiamo conto che Pedrina possiede il dono, abbastanza raro, di trasmetterci apparizioni che poi si trasformano in trasalimenti. Ci prende per mano e ci accompagna in una sorta di foresta incantata, dove i rami degli alberi non sono rami, ma braccia e le radici sulla sabbia del greto di un torrente, i frutti appesi e immobili, sono, forse, il simbolo di inverni memorabili della nostra vita.
Umanamente è una creatura bizzarra: colto, preparato, sa scrivere con efficacia, eppure si direbbe, apparentemente, un contadino veneto calato in città, che parla soltanto in dialetto. Invece legge i poeti, si interessa di letteratura e di storia moderna, di filosofia. Lavora tutti i giorni, come un artigiano, in due studi, spogli come celle di convento. In lui c’è qualcosa di religioso. È come se, dipingendo, pregasse. Qualche tempo fa in un intervista ha detto: «La mia può anche essere letta come una pittura della memoria. Una costruzione continua. Cambio, muto, consumo il quadro. Quando ho finito ho dato al quadro me stesso, ma ho preso anche da lui qualcosa». E poi: «Cerco intermediari tra me e Dio. Io, pittore, creando faccio opera di correzione di una realtà che, da parte di un artista, non si accetta mai così com’è».
È evidente, nella sua opera, una costante osmosi tra oggetti ed emozioni, tra la natura esterna e gli umori, spesso dolenti, della nostra fragilità di uomini. Ecco perché le figure sulle sue tele, i nudi di donna rigogliosi, hanno la singolare attitudine, pur nell’accennata carnalità, di tramutarsi in paesaggi campestri in cui la primavera esplode fiorente. Esiste un altro aspetto, nell’opera di questo veneto (non potrebbe essere, coloristicamente, che veneto, come ha ben accennato anche Pier Carlo Santini), ed è il senso di mistero che scorre nelle sue tele, in quasi tutte. Qualcosa di esclusivo, di sfuggente, come se Pedrina si divertisse a mettere alla prova l’osservatore, a pesare la sua sensibilità, a confrontarla con la propria, in un gioco sottile e persino ironico. Perché in Pedrina, come dicevamo, c’è la stoffa dell’attore che sa apparire, e tramutare e assimilare, in un gioco di parti che lo affascina e lo tormenta.
Tanti anni fa, un suo quadro, in cui appariva il volto della donna che sarebbe diventata sua moglie, fu acquistato da che scrive: non era facile mettere a fuoco le sembianze di Giuliana, dai grandi occhi di principessa egizia, bisognava osservare attentamente il quadro, metterlo nella luce appropriata, ricordarsi la zona in alto a destra tra le foglie e rami, e infine, quasi per magia, ecco apparire il volto amato dall’artista. Senza rendersene conto, crediamo, in quella lontana apparizione c’era gran parte della poetica di Pedrina.
Dicevamo che è un artista colto, che ha assimilato le ricerche di maestri del secolo, dagli astrattisti ai futuristi, dalla secessione a Sutherland, l’inglese con il quale ha qualche affinità formale. E certo comunque che Franco Pedrina segue, autonomamente, una strada solitaria e aspra, senza tentennamenti, con un rigore che gli costa, perché non gli permette indulgenze e scorciatoie. Se volesse sarebbe un pittore estremamente gradevole. Ma non vuole essere gradevole . I suoi mulini ad acqua, le sue radici contorte , scheletri vegetali, le sue betulle, l’albero che amava Mozart rammentano le tappe di un cammino risoluto, la storia di un artista fuori del comune.
Lo si incontra la sera, nelle gallerie milanesi intorno a Brera, in via Solferino, in San Marco, dove abita, magro, quieto, all’apparenza, ma poi, se si parla di pittura, della sua pittura, una luce appare nei suoi occhi color lavanda (come è stato scritto) e allora si intuisce che dipingere è, appunto, la sua religione, che dipingere è gioia, per lui, e anche dolore. E sacrificio. Che dipingere insomma è la sua follia, la sua personalissima follia.
L’anno scorso, in autunno, lo abbiamo presentato in una mostra in una galleria di Vigevano, su una delle piazze più belle d’Italia, ricordando una frase che Dino Buzzati aveva scritto sul Corriere della Sera in occasione appunto della sua prima personale milanese di ventitrè anni fa. Annotava Buzzati: «Una pittura che è ai limiti dell’astratto, ricorda le campagne della sua patria […] un raffinato gioco di toni che evoca i campi, le seminagioni, i frutteti, la luce dei cieli veneti». L’autore del Deserto dei Tartari aveva visto giusto.

(in “Arte”, marzo 1991)


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